“Non siamo alla fine del mondo, ma alla fine di un mondo”.
La pandemia Covid-19, che sta sconvolgendo il pianeta ed esacerbando il rischio climatico nell’attraversata era geologica dell’Antropocene, potrebbe rappresentare, iconograficamente, il “vaso di Pandora” dal quale emergeranno tutte le “post-verità” che non si sono volute ascoltare negli ultimi 30 anni: in un mondo finito non si possono più sprecare le sue risorse naturali in modo infinito.
Tra queste, anche per i servizi ecosistemici che è in grado di fornire – come la capacità di produrre il cibo che ci alimenta, di stoccare un gas climalterante come l’anidride carbonica, di drenare le acque meteoriche ricaricando la falda acquifera, di custodire lo scrigno di biodiversità presente negli strati inferiori – il suolo riveste un’importanza strategica e dal suo stato di salute dipende la stessa sopravvivenza dell’uomo.
Il suolo, da decenni, è stato elevato dalla finanza capitalista a moneta di scambio nel mercato della patrimonializzazione immobiliare e il cui dissennato consumo sta incrementando il palinsesto delle fragilità socio-ambientali. In un Paese come l’Italia, nel quale oltre il 90% dei Comuni è a rischio geoidrologico, l’intensità del fenomeno pernicioso del consumo di suolo misura il ritardo nel conseguire gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile entro il 2030 e rivela l’improbabilità di raggiungere il saldo netto zero entro il 2050.
Da oltre 10 anni e come annualmente evidenziato dai rapporti Ispra, l’Italia attende una legge nazionale per il contenimento del consumo di suolo e, contestualmente, per una rivisitazione radicale dei processi della rigenerazione urbana che, mediante le soluzioni basate sulla natura e nei dettami dell’ecologia integrale, potrebbe diventare, pertanto, la piattaforma integrata per una “conversione ecologica socialmente desiderabile” degli spazi urbani bisognosi di ritrovare, ancor più dopo la pandemia, il loro originario senso della comunità.